Nel deserto, il popolo d’Israele si ribella e sperimenta le conseguenze del peccato: serpenti velenosi che portano morte. Eppure Dio non risponde con la condanna definitiva, ma con un segno di guarigione: un serpente di bronzo innalzato da Mosè, davanti al quale chi guarda con fede, viene salvato.
Questo episodio prefigura chiaramente Cristo crocifisso: come quel serpente venne innalzato per la guarigione del popolo, così Gesù sarà innalzato sulla Croce perché chiunque crede in Lui abbia la vita eterna. È un segno che capovolge la logica umana: la Croce, simbolo di morte, diventa strumento di salvezza.
San Paolo ci offre una delle più belle riflessioni cristologiche del Nuovo Testamento. Cristo, pur essendo Dio, non trattiene gelosamente la sua condizione divina, ma si svuota, assumendo la condizione di servo, fino alla morte di Croce. È proprio questa obbedienza radicale, questo abbassamento volontario, che lo conduce all’esaltazione.
La Croce non è quindi un errore di percorso o una sconfitta, ma il cuore del mistero cristiano: è lì che si rivela pienamente il volto di Dio, un volto umile e misericordioso, che salva attraverso l’amore che si dona fino in fondo. Per questo, il nome di Gesù è “al di sopra di ogni altro nome”.
Il Vangelo di Giovanni ci porta al centro della festa: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito”. Il verbo “dare” include tutta la vita di Gesù, ma soprattutto la sua morte in Croce. L’innalzamento di Gesù sulla Croce è il momento culminante del suo amore, un amore che non giudica ma salva. Gesù non è venuto per condannare il mondo, ma per offrirgli una via d’uscita, una nuova possibilità. Chi guarda alla Croce con fede non si limita a contemplare un simbolo religioso, ma incontra l’amore personale di Dio che lo salva.
