Il cuore del Vangelo di oggi (Luca 18,9-14) è una parabola che Gesù racconta “per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri”. Due uomini salgono al tempio per pregare: un fariseo e un pubblicano. Ma solo uno dei due “torna a casa giustificato”: il pubblicano, colui che ha riconosciuto la propria miseria davanti a Dio. È un ribaltamento radicale: il fariseo, apparentemente devoto, osservante e irreprensibile, è in realtà chiuso nella sua autosufficienza. Non prega davvero: si autocelebra. Il pubblicano, invece, è consapevole del proprio peccato, non osa alzare gli occhi al cielo, ma si affida alla misericordia di Dio.
La prima lettura (Siracide 35,15b-17.20-22a) conferma questa verità: Dio è giusto e imparziale, non fa preferenze, e ascolta la preghiera dell’oppresso, dell’orfano, della vedova, di chi è nella sofferenza e non ha altra forza se non Dio. È un Dio che “non ritarda”, anche se il suo tempo non è il nostro.
San Paolo (2 Timoteo 4,6-8.16-18), ormai vicino al martirio, guarda la sua vita come un’offerta versata. Non si vanta, ma rende gloria a Dio che lo ha sostenuto in ogni prova. Il suo “combattimento” non è per vanità, ma per fedeltà al Vangelo. E dice con speranza: “mi è riservata la corona di giustizia”.
insegnamento catechistico
La vera preghiera nasce dall’umiltà. Dio guarda il cuore, non l’apparenza.
Chi si esalta sarà umiliato, chi si umilia sarà esaltato.
L’umiltà e la fiducia sono ciò che attirano il cuore di Dio.
La preghiera di chi soffre, di chi è sincero, “penetra le nubi”.
Anche Paolo è come il pubblicano del Vangelo:
ha fiducia non nei propri meriti, ma nella giustizia e nella misericordia di Dio.
La “corona” non è solo per lui, ma per tutti “quelli che
hanno atteso con amore la manifestazione del Signore”.
